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dal "Corriere della Sera"
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Bergonzi nel nome di Caruso
Il più grande cantante verdiano del dopoguerra ha saputo aggiornare un celebre modello

di: Paolo Isotta
20 Agosto 2004
 
Carlo Bergonzi, il più grande tenore verdiano del dopoguerra e possiamo dire il più grande tenore vivente, ha compiuto ottant’anni, chiattoncello com’è sempre stato senza mai provarne complessi in palcoscenico ma fresco come una rosa.
Non si tratta di un comune compleanno.
Si tratta di un avvenimento capitale per la musica. […] quest’uomo che ha mandato in delirio le platee del Metropolitan e del Covent Garden, dell’opera di Vienna e del Festival di Salisburgo con Karajan, della Scala e del San Carlo, è una persona seria e intelligente, un professionista di uno scrupolo spinto ai limiti del sacrificio vero, uno che non ha mai accumulato recite vivendo in jet e mescolando repertorio, giacché l’avarizia è qualità del cantante lirico difficile da sondare se non si è conosciuta davvero; uno che fuor dal palcoscenico ha coltivato un riserbo per fortuna non morboso e ha anche saputo vivere e vivere bene, ma mai s’è accostato alla figura del personaggio pittoresco.
Ho incontrato Bergonzi pochissime volte.
E’ d’irresistibile simpatia, di finissimo senso del humor e indimenticabili sono certi lampi birichini che gli ho colto nello sguardo; dalla sua conversazione c’è sempre da apprendere; è uno squisito commensale; infine, è un uomo di bontà d’animo e generosità memorabili.
Ma affascinante è lo smontare e poi il rimontare il meccanismo del Bergonzi tenore e artista. Perché qui si entra nel più geloso dominio della tecnica del canto, centro d’irradiazione del tutto e quindi, come non mi stancherò di ripetere, anche della cosiddetta “espressione”, del cosiddetto “pathos”. Bergonzi è il tenore più espressivo del dopoguerra perché, con Alfredo Kraus, i mezzi del quale lo portavano ad un repertorio che solo in piccola parte con quello di Bergonzi s’interseca, è quello dotato della tecnica più perfetta, quello che alla tecnica più s’è applicato per ottenerne i risultati i quali secondo i più scaturiscono dal “cuore”, dal “temperamento”.
Ma quanto più freddo un cantante si tiene durante la prestazione, tanto più calda essa sarà. Il giovassimo Bergonzi non dovette costruirsi la tecnica, dovette prima addirittura costruirsi la voce. L’avevano fatto nascere baritono: e quando s’accorse di essere tenore, se ne conquistò l’estensione con studio matto e disperatissimo, semitono dopo semitono.
Vi è riuscito a un punto tale da possedere non solo uno dei timbri più pieni e dolci insieme, una voce ricca di “armonici” sapientemente disciplinati, ma da eludere addirittura una delle principale difficoltà per qualsiasi cantante, il cosiddetto “passaggio”.
Per chi lo soffra, non solo l’intonazione diviene incerta sulle fatidiche note, il timbro incerto e variabile anche per la tendenza a sforzare la voce proprio lì, ma bene spesso, superatolo, il soggetto dispone nell’altro territorio di una voce completamente diversa.
Grazie a una raffinatissima tecnica di emissione “mista” quasi inavvertibile, per Bergonzi il passaggio non esiste. Meravigliose sono in lui le note che lo precedono, i centri, denotanti tipicamente il tenore “eroico”: e infatti non s’è trovato un Ernani, un Manrico, un Radames che gli possa essere accostato; nemmeno un Alfredo il quale, pur appartenendosi per convenzione alla categoria del tenore “lirico” insiste in particolare su quella zona.
D’altronde, come testimonia una straordinaria incisione della Traviata diretta da Georges Prêtre con Montserrat Caballé, la delicatezza delle sfumature ostesa dal grande Carlo fa di lui sicuramente l’Alfredo più elegante che vi sia mai stato. Dopo il Sol, gli acuti di Bergonzi possono essere energici e squillanti come anche morbidi e duttili; fino al Si bemolle compreso siamo nella perfezione, il Si naturale e il Do sono a volte, al confronto, lievemente meno felici.
La sua tecnica riposa sopra un dominio del fiato unico in ambito virile. Immagazzinatolo, Carlo riesce ad emetterlo comandandolo a suo piacere e addirittura, in certe lunghissime frasi verdiane, a respirare in modo del tutto impercettibile senza minimamente spezzarle.
Tutto il suo canto è “appoggiato” sul fiato. Non si sentirà da lui mai una nota sforzata, giacché la quantità di fiato da dedicarle è prevista e realizzata con esattezza matematica, donde quell’intonazione e quel timbro, pur variatissimo, peraltro, d’inalterabile perfezione.
La prima ragione della morbidezza e duttilità degli acuti è proprio quest’appoggio, e la forzatura nel “forte” degli acuti non fa parte del vocabolario del sommo Carlo.
Ma così l’appoggio realizza anche miracoli impensabili per altri, i “crescendo” e le “smorzature” oltre il “passaggio” che fanno restare letteralmente a bocca aperta. Cantare “piano”, specie nella tessitura acuta, implica uno sforzo decuplo rispetto al “forte”.
Il caso da manuale è il Si bemolle “piano” e poi ulteriormente smorzato con che egli chiude Celeste Aida. Un Si bemolle p-i-a-n-o e non in falsetto, ma per la tecnica del fiato! Ma toccata l’Aida è impossibile tacere di O terra addio. Quei Sol bemolle e quei Si bemolle “piano” (Verdi pretende “dolcissimo”) sono un autentico miracolo. Poche cose sono più commoventi di questo finale cantato insieme con la somma Renata Tebaidi nell’incisione discografica diretta da Karajan, che ne era particolarmente fiero. Premesso che esistono pochi cantanti attenti come Bergonzi alla precisione del solfeggio e perciò capaci dell’elasticità nel violare la lettera quando lo stile chiede allargamenti e restringimenti di tempo nella frase, ancora resta da dire, nella tecnica di Carlo, la perfezione della fonazione articolata.
La chiarezza della dizione è tutt’uno con la linea melodica, sì che non ti riesce di distinguere l’una dall’altra.
Allora cominci a percepire che cosa Bergonzi faccia della sillaba: la pronuncia con un’energia ma anche con una varietà dinamica e una ricchezza di sfumature che, se sono straordinarie nelle Arie, ove i suoi colleghi paiono sovente timorosi di tanto lusso quasi dovessero uscir di strada, e così sconoscono il fraseggio, nel più semplice dei Recitativi sono una delle più importanti lezioni di canto e di espressione mai avutesi.
E così egli dona a ottant’anni autentiche emozioni nei distanziatissimi concerti che si concede.
Ho nominato solo Verdi anche per una insuperabile affinità ideale e di radici: praticamente, nei due, le stesse. Ben vero, Bergonzi ha dominato gran parte del repertorio tenorile, essendo per esempio in formidabile pucciniano ed u Edgardo nella Lucia come la Storia ne ha dati pochi.
Lo spazio mi impone purtroppo di fermarmi qui, quando ho la sensazione di aver appena sfiorato l’argomento.
Farò dunque una considerazione finale. L’espressione “tenore italiano” può esser considerata intrinsecamente offensiva.
Siamo portati ad attribuirle una connotazione di gallismo, vanità, vacuità, poca intelligenza.
Storicamente abbiamo esempi di Uomini tenori italiani che come pochi altri dovrebbero farci fieri di essere lo compatrioti: Carusi, Gigli, Schipa. Bergonzi è della stessa pasta, è di quelli per i quali il nome Italia è ancora grande nel mondo.
 


Data di creazione: 31/03/2005
Data di modifica: 31/03/2005
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