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“Le voci italiane ci sono ancora”

Intervista a Carlo Bergonzi

Il famoso tenore, sulla breccia ancora a 63 anni, spiega perché l’accordatura alta e la scelta di ruoli inadatti impediscono la formazione delle grandi voci

 

di: Liliana Celani e Giuseppe Matteucci

12 marzo 1988

 

Domanda: Maestro Bergonzi, nel 1884 Giuseppe Verdi fece adottare al governo italiano un decreto che abbassò l’accordatura delle orchestre a quello che Verdi definì il “diapason scientifico” (La=432 vibrazioni al secondo), circa mezzo tono più basso del diapason attuale, e lo fece per timore che l’accordatura alta danneggiasse le voci dei cantanti. Che cosa ci può dire a questo proposito sulla base della sua esperienza di cantante ed insegnante?

Risposta: Le orchestre oggi accordate più alte sono quelle di Vienna e di Firenze. E si sente che il suono di quelle orchestre, acuto e cosiddetto brillante, non è naturale. Lo chiamano brillante, ma brillante è il suono falso. Il suono brillante può essere un La 438, 440, 441, ma non 450. Questo è un suono falso. Pensi ad una corda vocale: dove la porta? Io che ho la scuola posso parlare dei miei elementi, perché poi ci potrà essere un’eccezione, ma oggi l’eccezione non c’è, e credo che neanche le voci di una volta sopportassero altezze simili, credo che occorra andare a finire ai sopranisti o alle voci bianche, che erano adatte a fare certe cose, ma non il melodramma. Sono convinto che lasciando il diapason come è ora diventerà impossibile cantare. Credo che sia una delle cause di questa crisi delle voci. Io faccio lezione a 440, il pianoforte lo tengo un po’ allegro lo stesso. Io il mio a casa l’ho a 440, anche se l’esecuzione è a 444.

D: Ma col 440 si devono spostare in alto i passaggi di registro, che sono cruciali per l’impostazione della voce. Il passaggio di registro deve avvenire troppo presto, per esempio il tenore non può passare sul Fa diesis...

R: Si, deve passare sul Fa o sul Mi naturale.

D: Ma se l’aria è costruita per un passaggio diverso?

R: L’aria è stata composta con il diapason di allora, ed è chiaro che anche spostando il passaggio, non è la stessa aria. Che senso ha alzare il diapason? Come si fa a portarlo su in questo modo? Inoltre, lei sa che qualsiasi strumento, anche un violino, riscaldandosi diventa più acuto. Ecco perché avevano fissato il diapason a 432, perché sapevano che durante l’esecuzione la frequenza sarebbe cresciuta.

D: Un esempio che ha dato Piero Cappuccilli dal “Trovatore”, è l’aria “Ah si ben mio coll’essere io tuo tu mia consorte” che precede “Di quella pira” e ruota tutta intorno all’intervallo compreso tra il Sol bemolle, o Fa diesis, e il La bemolle. Il problema, ha detto, non è il do di petto di “Di quella pira”, ma questa zona di passaggio, che è cruciale per la voce.

R: E’ vero. L’acuto non è mai il problema. Se poi si sposta tutta la zona, che cosa mai diventa il Fa! Bisogna cominciare a chiudere dal Mi, perché il Fa è diventato un Fa diesis.

D: E' vero che molto spesso il cantante è costretto ad abbassare di mezzo tono la tonalità di quest'aria?

R: E' vero. Alcuni compositori, ad esempio Donizetti nell'ultimo atto della "Lucia", hanno scritto "anche mezzo tono sotto"; ma è sempre il trasporto dell'autore. E' il solito "oppure", ma si tratta solo di due o tre pezzi. Poi purtroppo hanno dovuto farlo anche per altre arie, benché non ci fosse l’"oppure" del compositore. Verdi e Donizetti l'avevano già intuito.

D: Comunque leggendo gli atti di quella conferenza del 1881, a cui Verdi non partecipò personalmente ma fu menzionato più volte come punto di riferimento per l'abbassamento dell'accordatura, la cosa che è estremamente positiva per il periodo storico in cui è avvenuta, e che noi vorremmo far rivivere, è il legame che si stabilì tra musica e scienza, leggi dell'universo. Ciò contraddice la tendenza, assai diffusa dopo il Congresso di Vienna, a dire che l'arte è solo per l'arte, a negare che la voce umana sia lo strumento principale a cui si ispirano tutti gli altri strumenti, e l'esistenza di una legge fisica dell'universo che si riflette in molte cose, tra cui appunto l'accordatura.

R: Certo, a causa di questo genere di evoluzione i cantanti stanno andando in crisi. Non è un discorso molto lungo. Come mai non ci sono tanti cantanti come una volta? Eppure le voci ci sono, eccome! Io ne ho diverse qui all’Accademia di Busseto. Però quando arrivano alla zona di passaggio con il piano accordato alto, si sente che c’è uno sforzo fisico. Quando si sente lo sforzo fisico sulle note acute o sul passaggio, allora vuoi dire che il diapason non è naturale. Perché il suono, appoggiato sul diaframma, deve passare sopra il fiato, ma se l’accordatura va su, il fiato deve appoggiare su qualcosa di falso. In questo caso lo sforzo c’è sempre, anche nei più grandi tenori acuti di oggi, non occorre fare nomi. Perché non proviamo a riportare il diapason come era una volta?

D: C’è chi, anche tra i direttori d’orchestra, sostiene che non si può. Ma chi l’ha detto?

R: Siccome le orchestre sinfoniche suonano anche per la lirica, hanno quel suono e non lo cambiano più. Spesso anche i maestri non si intendono affatto di voci e non scelgono compagnie adatte ai ruoli da mettere in scena. Una volta i nostri maestri si chiamavano Serafin, De Sabata o Gavazzeni. Erano loro che stabilivano: “Questa voce è drammatica”, oppure lirica, o lirica spinta, o leggera. C’erano tutte queste categorie. C’erano le voci. Oggi il tenore di "Otello" non c'è, perché non basta la potenza, è il colore l'aspetto decisivo. Un tenore, anche se è acuto e arriva al Re naturale, ma non ha il colore bronzeo, scuro, non può cantare l'Otello. La voce chiara pucciniana non può fare Verdi, non è il tenore verdiano. Il tenore verdiano, anche il Duca di Mantova, è sempre il tenore maschio; bisogna arrivare al Falstaff per trovare un altro tipo di tenore, che non è il tenore verdiano. In questo caso si potrebbe forse ricorrere al tenore dell’"Elisir d'Amore" di Donizetti; ma il Falstaff è un'opera un po' a sé che avrà successo solo dopo il 2.000, perché è molto moderna. Infatti le arie del tenore del Falstaff, Fenton, non rientrano nel concorso, come non vi rientra neanche "Caro nome".

D: Ma Lei pensa che il colore venga a mancare, come dice la Tebaldi, a causa dell'accordatura alta?

R: Sì, è senz'altro l'accordatura.

D: Le voci pastose non ce la fanno ad appoggiare?

R: Senza dubbio, senza dubbio. Torniamo al discorso dei maestri che fanno l'opera oggi. Dicono "facciamo l'Aida" senza pensare che non ci sono le voci adatte. Se andremo avanti così credo che vedremo presto l’Otello cantato da un tenore leggero. Quando debuttai io da tenore, nel 1951, i tenori erano 2.000. Solo in Italia ne avevamo 200, ma di cartello. Oggi ne sono rimasti tre o quattro in tutto il mondo! E questo perché? Le voci ci sono oggi come c'erano prima. E' senza dubbio l'effetto dell'accordatura alta.

D: Ma Lei crede che se si tornasse al La=432 di Verdi le voci potrebbero tornare a ricoprire i giusti ruoli?

R: Credo che nel giro di cinque anni torneremo ai vecchi tempi.

D: Quindi non è solo la mancanza di insegnanti.

R: Ecco, noi diamo la colpa agli insegnanti, ma il primo errore è stato alzare il diapason. Sarà anche vero che gli insegnanti non ci sono, ma non ci son proprio per questo motivo.

D: Sentivo stamattina che diceva al basso di cantare più libero. Come era accordato il pianoforte?

R: Al La=444, per abituare i cantanti.

D: Se cantasse nella tonalità originale, diciamo mezzo tono più basso, avrebbe meno problemi di chiusura?

R: Ma niente. Poi c'è anche il cantante capace di adattarsi ricorrendo alla tecnica, cioè alzando il cosiddetto palato molle che fa passare il suono. Ma può farlo se la differenza è minima, neanche un quarto di tono; quando si arriva a mezzo tono più su, non so, perché le corde vocali non si possono tirare. Ci vuole comunque un cantante esperto.

D: Lei dove passa?

R: Ho sempre passato sul Fa-Fa diesis. C'è però un'altra cosa, anch'essa, penso, dovuta all'innalzamento del diapason. Alcuni maestri confondono molte cose: parlano di "chiuso" e di "aperto", ma confondono il "coperto" con il "chiuso". Coperto, il suono va coperto. Deve essere appoggiato ma coperto. Perché non esiste né il suono chiuso né il suono aperto. Il maestro deve dare anche l'impostazione del suono. Se la voce si chiude non lavora più né il diaframma né il resto. Dicono "chiudi", ma perché non sanno distinguere il coperto dal chiuso. E' il "coperto" del belcanto che permette, nonostante il passaggio di registro, di arrivare agli acuti mantenendo lo stesso colore. Naturalmente il diapason è sempre l'aspetto principale, ma c'è anche il modo di insegnare.

Il suono, coprendolo, passa. E una volta che arrivati al Fa diesis, Sol, La bemolle, si può andare dovunque, non ci sono limiti; fino al Do non cambia più. Ma se si incomincia a chiudere sul Fa o sul Fa diesis come si fa ad arrivare al La, al Si bemolle? Se canto “un trono vicino al sol, un trono vicino al sol" chiudendo la voce, come faccio? E' già sul Fa che io so che faccio il Si bemolle.

Io ormai ho quarant’anni di carriera e sono sempre stato un po' pignolo. Ascoltando Verdi si può imparare da tutti, da chi comincia e da chi è arrivato. E ho notato che il chiuso" e l'"aperto" hanno effetti dannosi. Io, in tre anni che ho l'accademia, ho prodotto sei cantanti, ma sei cantanti di cartello, due dei quali hanno debuttato adesso con me al Metropolitan.

D: Nella Luisa Miller? Che parte facevano?

R: La Luisa era la Mosca, che ha debuttato l'estate scorsa qui a Busseto, e poi Pasquetto.

Io non forzo mai. Levine, che ha una grande fiducia in me, mi ha detto: "voglio fare la Luisa Miller con te". "Guarda che nella Luisa" gli ho risposto "non c'è solo Rodolfo. C'è la Luisa e il Miller, e c'è anche Wurm e Walther. Tu vuoi farlo con me per il nome, per il Metropolitan, ma ci vuole anche la Luisa". Abbiamo chiesto a vari soprani, anche di nome, ma tutte rispondevano che la Luisa Miller non volevano più farla. Allora gli ho proposto: "non te lo impongo, ma se ti fidi e paghi il viaggio e il soggiorno, perché sono ragazzi che ancora studiano e fanno già dei sacrifici per studiare, puoi sentire i miei cantanti". Sono andati là per l'audizione e a metà aria li ha scritturati.

D: Ed è andata bene?

R: Molto. La Mosca è stata riscritturata anche per "II Trovatore" che si farà l'anno prossimo. La Mosca l'avevo portata a Lisbona un mese fa, a fare i "Lombardi"; è un soprano spinto con coloratura, non ha alcuna difficoltà.

D: Quanto tempo studiano con lei?

R: Con me fanno due mesi. Prima fanno il concorso, poi due mesi di Accademia. E poi la preparazione per l'opera. Chi non è pronto viene indirizzato alla seconda Accademia. Molte delle voci che ne escono sono italiani, perché i cantanti italiani ci sono ancora, se li facciamo cantare nel modo giusto.

D: In fondo questa è la patria del "belcanto".

R: Su otto cantanti, sei sono italiani. Ma non è che io preferisca gli italiani. In questo mestiere va avanti chi ha le qualità: la voce e non soltanto la voce, perché non si canta solo con la voce. Infatti se guardiamo ai grandi artisti come Pertile, Schipa e altri non avevano voci fantastiche ...

D: Ma sapevano come usarla.

R: Non bisogna prendere come esempio Gigli, Caruso o Di Stefano, che sono nati con la voce, che furono insuperabili, ma per natura. Gigli e Caruso sarebbero stati Gigli e Caruso anche se non avessero avuto maestri. Però un maestro non può fare certi scherzi, come quello di prendere un cantante che io gli affido per fare al massimo il "Rigoletto" e fargli fare "II Trovatore" o "Aida" o "La Forza del Destino" o il "Ballo in Maschera". Il ragazzo, poverino, accetta. C'è la tendenza a dire "ha il Do: faccia Manrico". Magari va bene solo per il Barbiere di Siviglia e il Don Pasquale e gli fanno cantare "II Trovatore".

D: Insomma secondo Lei ci sono due cose, il diapason e il repertorio.

R: Ci sono le eccezioni che riescono a fare sia il leggero che lo spinto. Ci sono le voci elastiche che si mantengono elastiche. Perché io sono il tenore di Aida. Bergonzi: Trovatore, Radames, Ballo in Maschera. Ma non mi fermavo a quelle parti. Accettavo le scritture a Roma, alla Scala e al Metropolitan. E magari la scrittura successiva era per "L'Elisir d'amore" o la "Lucia" o "La Bohème". Facevo una decina di opere del repertorio lirico-leggero, poi tornavo sul lirico o addirittura drammatico. Ma bisogna sapersi regolare. Da baritono a tenore io non ho avuto maestri, sono autodidatta. Ho cantato da baritono per due anni e mezzo circa, e con grandi maestri. Siccome avevo una certa intelligenza musicale, non hanno mai fatto nessuna osservazione sulla mia voce, che però non era di baritono, era semplicemente scura, perché ero giovane. Il 12 ottobre 1950, durante l'allestimento della Madama Butterfly con Masini e una delle prime giapponesi venuta in Italia, Tosiko Segava, decisi improvvisamente di non cantare più da baritono. Mi trovavo nel camerino, e nel fare alcuni vocalizzi, mi venne da cantare il Do del finale del duetto; mi riuscì facilmente, quasi senza pensarci. In quei giorni pensavo già a ritirarmi dal mondo della lirica perché quella del baritono non era una carriera a cui aspiravo. Quella sera decisi tutto. Tornai a Milano, mentre mia moglie era a Genova da sua madre, perché aspettava il primo figlio e mancavano solo tre mesi. Quel giorno mi dissi: "da oggi, per tre mesi non canto più" e non lo dissi neanche a mia moglie. A quei tempi abitavo in un appartamento a Cusano Milanino, in aperta campagna, perché non avevo una lira; non avevo neanche il pianoforte. Pensi che per mancanza di soldi studiavo canto con il corista. Mangiavo a Milano alla mensa dei postelegrafonici. Pagavo 50 lire senza il vino. Durante questi mesi in cui rimasi solo cominciai ad acquistare quasi mezzo tono al giorno. Dopo un mese andai a fare l'audizione come tenore.

D: Ma lei era già convinto?

R: No, la mia scelta è stata: o riesco a far carriera da tenore o torno a fare il formaggio a Vidalenzo, vicino a Busseto, dove mio padre faceva il parmigiano. Sarei tornato perché adesso avevo una famiglia da mantenere, e in questa professione chi non arriva fa la fame. Così andai a fare l'audizione. Così il 12 gennaio del '51 debuttavo da tenore nello Chenier, a Bari, tre mesi esatti dopo aver abbandonato la carriera di baritono. Fu un successo. Le critiche esaltavano il successo del "giovane Bergonzi" che in soli tre mesi era passato da solo dalla voce di baritono a quella di tenore, e mia moglie le lesse.

D: Lo seppe dai giornali?

R: Sì.

D: Dùnque i maestri si sbagliarono a classificare la sua voce?

R: Sì, essi non capirono, perché ero molto giovane e la voce era scura.

D: Ma non è che a lei piacesse la voce di baritono?

R: No. Per diventare un grande baritono mi sarebbe piaciuto sì. Ancora oggi mi piace molto la voce di baritono. Avevo sempre sognato di diventare un baritono verdiano. Ma a un certo punto bisogna avere anche l'intelligenza di capire. Io partii bene, scegliendo il repertorio giusto. Per il resto la mia fortuna fu che proprio in quell'anno, nel 1951, c'era il cinquantesimo anniversario della morte di Verdi. Dico fortuna, perché quella sera del mio debutto nell’ “Andrea Chenier" era presente anche il direttore della radio (la televisione ancora non c'era) che decise di scritturarmi per tutto l'anno a cantare repertorio verdiano per le stagioni della RAI, allora assai importanti. Cantai nell' “Oberto", nello "Stiffelio", nel "Simon Boccanegra", "Forza del Destino", "Giovanna d'Arco" e nei "Due Foscari". Poi andai alla Scala.

D: Ho notato che nel suo repertorio, oltre a Radames e le parti caratteristiche, ci sono anche molte opere verdiane su libretto di Schiller. C'è anche una scelta legata all'aspetto teatrale o è solo una scelta vocale?

R: E' più che altro una scelta vocale.

D: Intende dire che le opere come Luisa Miller e Giovanna d'Arco si adattano particolarmente alla sua voce?

R: Sì. Luisa Miller si adatta molto alla mia voce. Se poi c'è anche un buon libretto, tanto meglio. Io sono un verdiano, a parte la voce, anche nell'animo.

Ho sempre sognato di cantare Verdi, benché io abbia un repertorio di 70 opere. Ho fatto tutto il repertorio di Pizzetti, ho fatto tutto il verismo, anche "Masaniello" di Jacopo Napoli; sono entrato alla scala con Masaniello. Dopo Masaniello mi assegnarono la parte di Simon Boccanegra, quindi il Mefistofele, poi l'Aida, poi II Trovatore e il Ballo in Maschera.

D: Insomma, Verdi è sempre stato la sua passione.

R: Certo, Verdi e il primo Verdi in particolare, soprattutto all'inizio. Giovanna d'Arco, Simon Boccangra.

D: Ma anche nella sua attività di insegnamento Lei cerca il cantante verdiano?

R: Io ricerco il cantante verdiano, ma non c'è ancora. Baritoni sì, ne ho.

D: Ma oltre la carenza vocale, quello che mi ha interessato nella sua lezione questa mattina, per esempio con il mezzosoprano, è che cercava di far capire la questione dell'espressione poetica.

R: Certo, la parola.

D: Per esempio come si enfatizza un verbo, come tre parole di seguito vadano espresse in tre modi diversi, e per dare l'esempio Lei recitava le frasi. Pensa che sia andato perso il legame tra musica e poesia?

R: Io credo di sì. Quando insegnano, i maestri suonano la romanza, ma non si fermano mai per un'espressione.

D: Capita spesso che i cantanti tendano ad essere più monotoni che nel passato?

R: Quando arrivano qua sono tutti così. Per questo io faccio due concerti. Il pubblico li sente due volte: quando arrivano e poi quando partono. L'anno scorso, quando sono partiti il Saltarin, la Rubin, la Scola, alcuni amici sono venuti da me nel corso del primo intervallo e mi hanno detto: "ma questo Saltarin non è quello che mi hai fatto sentire, è un altro con lo stesso nome, non è quello che ho sentito sei settimane fa!'. "No — ho risposto — questo è Maurizio Saltarin, questa è la Mosca, questa è la Rubin". Erano già pronti per cantare, perché vengono dalla scuola. Arrivati a questo punto, l'altro errore è che il giovane sogna subito di andare al Metropolitan o la Scala. Io non andai subito alla Scala. Prima cantai a Parma, a Reggio, a Piacenza, a Sassuolo, e poi Gorgonzola, Vigevano ... cantai la Manon Lescaut con la Petrella. Imparai molto anche cantando con Tullio Serafin, che per me fu il migliore direttore d'orchestra.

D: E' da lui che ha imparato a dirigere i suoi allievi?

R: Sì, e poi non ho mai smesso di imparare da lui. Ho studiato composizione, ho anche attitudini come direttore. Lavorando con Serafin è come se avessi studiato dirczione d'orchestra. Sono molto richiesto come insegnante, anche per questo motivo. Adesso non ho tempo perché canto, ma mi hanno offerto l'università di Boston. Lei saprà che a Boston ho dato dei "master class".

D: Si, volevo venire a sentirla...

R: Lei doveva venire. La prima sera l'abbiamo fatta in una sala del Conservatorio. La prima sera ha avuto tanto successo che il giorno dopo, l'hanno spostata al teatro. C'era il teatro dell'opera pieno. Doveva vedere che entusiamo! Gli allievi cantavano una romanza, facevo loro delle osservazioni, facevo ripetere, e il pubblico sentiva. Alla fine il direttore mi ha offerto la cattedra. Tra una recita e l'altra di Luisa Miller sono andato a Yale, alla Juillard School.

D: Questa questione dell'espressione riescono a capirla, considerando che sono americani che cantano in italiano?

R: Lì non c'è nessuno che gliela insegna. Ma se Lei glielo spiega, riescono a capirla. Ho avuto grandi soddisfazioni. Io oggi ho 63 anni. Eppure gli articoli del New York Times e del Washington Post sulla Luisa Miller, scrivono: "il miracolo, il veterano e il miracolo Carlo Bergonzi; per fare un veterano come lui ci vogliono due tenori di trent'anni". L'altro dice "l’imcomparabile veterano Carlo Bergonzi ieri sera ha dato una lezione di canto, che tutti i grandi tenori dovevano essere in prima fila".

D: Lei fa vocalizzi tutti i giorni?

R: Tutti i giorni faccio mezz'ora di esercizi di respirazione, e poi faccio i miei vocalizzi, come facevo quando studiavo, poi studio le opere, e tutte le opere da tenore le ho studiate, da solo, al pianoforte. Non per sfiducia, ma perché ci vuole l'autocontrollo.

D: C'è qualcosa che lei ritiene cruciale per la tecnica giusta? Quale esempio di scuola?

R: La respirazione. Perciò mi ha fatto molto piacere che un articolo di Rodolfo Celletti sul Radiocorriere portasse questo titolo: "Come canta Bergonzi? Respira". La base fondamentale è la respirazione, che dà alle note l'appoggio necessario. Ecco perché io oggi ho ancora la voce. Purtroppo c'è l'età, e un bel giorno, anche domani può succedere, io mi alzo e il mio diaframma non risponde più, causa l'età. Finora non è successo, e infatti i contratti non li firmo più a due anni.

Al Metropolitan volevano farmi firmare per l'89 e il 90 ma ho rifiutato. Mi sono detto disponibile a firmare per la Lucia che andrà in scena a novembre, ma con una clausola che stabilisca che fino a tre mesi prima dello spettacolo posso ancora telefonare per annunciare che non canto più. Il giorno in cui la voce comincerà a tremare, voglio lasciare il palcoscenico con un buon ricordo. Può darsi che l'ultima recita riesca male a causa di questo fatto, ma sarà una, non di più. Finché ho venti contratti al Metropolitan, alla Scala, che io rispetti i miei contratti. Ma il giorno che il mio fiato non risponde più, basta, stop, finito.

D: Se ne accorge subito?

R: Sì, io lo so già, il Padre Eterno mi ha già regalato venti anni di carriera, non ho problemi.

D: Anche da questo punto di vista l'altezza del diapason è un problema, perché le voci durano poco.

R: O si sviluppa una grande tecnica per vincere queste difficoltà o la voce dura poco. Quando andai a Firenze dodici anni fa, me ne accorsi subito. Comincio l'aria "Quanto è bella quanto è cara" e mi fermo: "un momento maestro — chiedo — com'è accordata l'orchestra?". Tutti i professori si guardano. "Io direi di fare una pausa, e di trovarci in camerino". In camerino chiedo al direttore Gavazzeni "mi fa parlare con il primo oboe?" All'oboista chiedo: "scusi lei deve proprio suonare l'opera con un diapason così alto, perché in questo caso, purtroppo, devo rinunciare". Io ho sempre il mio corista in tasca. "Guardi, qui siamo un bel mezzo tono abbondantino sopra". Non è che l'Elisir d'Amore mi facesse paura, perché non ci sono acuti, ma mi preoccupava l'attacco. Infatti io dovevo cominciare "Una furtiva lacrima" sul Fa naturale, e con mezzo tono più su mi cambiava tutta la gamma. Allora l'oboe cominciai a tirar giù, spostando l'ancia, e raggiungiamo un compromesso a metà strada, arrivando ad un quarto di tono.

D: La cosa buona del decreto di Verdi, è che lo fecero attuare dal Ministero della Guerra. Cambiarono tutti i fiati delle bande militari, tutti, dimostrando che non è vero che i fiati sono fissi, perché questa è solo una scusa. Gli ottoni...

R: Certo, e poi ci sono i pistoni.

D: Gli strumenti a fiato antichi, sono accordati così bassi che non potrebbero reggere all'accordatura alta. Si tratta di tornare a usare il diapason, perché non lo usano neanche più, con la scusa che l'oboe è fisso. Molti direttori dicono che sarebbe giusto storicamente, ma che non si può fare. Tranne Serafin, che fece una battaglia a New York, dove il La era arrivato a 462, ai tempi in cui Bodansky faceva Wagner. Serafin riuscì a tornare al La di Verdi solo perché l'oboe era di Parma e il primo clarinetto napoletano. Fece una battaglia negli anni Trenta dicendo: "noi al Metropolitan vogliamo fare Verdi, non Wagner".

R: E' uno sbaglio dire che non si può. Per me è un suono falso anche per il sinfonico.

 


Data di creazione: 12/04/2005
Data di modifica: 09/05/2005
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