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L’Emozione in una voce

La storia di un baritono trasformatosi in tenore dal canto solare e irripetibile, che ha segnato l’epoca d’oro del teatro d’opera

 

di Franca Cella

giugno 2005

 

L’anno scorso, quando ha compiuto ottant’anni (per il 24 luglio), il tenore Carlo Bergonzi ha viaggiato per il mondo per i festeggiamenti che i suoi teatri gli avevano organizzato: «una festa meravigliosa» al Regio di Parma, dove i suoi allievi in carriera avevano cantato per lui; il premio «Una vita per la musica» a Catania, dove nel ‘47 aveva debuttato come baritono in personaggi pucciniani (Sonora nella Fanciulla del West e Schaunard nella Bohème) e - per improvvisa malattia del titolare - anche Germont; e subito dopo Chicago (debutto nel ‘55), New York (debutto ‘56-7) e per chiudere il ciclo dell’anno la Scala.

«Io non credevo che in tanti si ricordassero di me», dice Bergonzi. «Ho fatto una carriera di 53 anni, ma non sono stato il tenore che ha cercato pubblicità. Io ho fatto il mio lavoro. Essere così ricordato e invitato mi ha dato una grande soddisfazione».

Carlo Bergonzi è un personaggio di concretezza solare; ha realizzato una carriera ai livelli massimi, cantato con tutti i grandi direttori, con tutti i grandi interpreti, da Schipa a oggi. Ma si è anche costruito artista fra molte difficoltà, figlio unico di un casaro di Vidalenzo, a pochi chilometri da Busseto, studente di musica in tempi di fame nera, deportato a diciannove anni in campo di concentramento. Racconta col gusto rotondo di un Bacchelli popolano, e la sua storia si snoda per culmini, l’accento sempre al positivo, ai colpi di fortuna.

La vocazione al canto?

«Prima di tutto ci vuole la passione. Già a sei-sette anni ero appassionato di musica. Sentivo suonar le campane e con due bastoni ritmavo il ritornello, che ancora ho in mente. Aiutavo il sacrestano a tirar le campane; ero sempre l’ultimo a tornare dalle funzioni. Ho cominciato in Chiesa, come tutti: io suonavo l’organo e Adele (che sarebbe diventata mia moglie) cantava con le ragazze, la voce penetrante che sforava».

Il maestro che le è stato più utile?

«Ho studiato da baritono, e il mio primo maestro è stato Edmondo Grandini, un baritono che cantava in estate a Busseto. Siccome avevo una voce scura anche a sedici anni, ho tratto in inganno i maestri. Mi propose d’andare a Brescia, da lui, e poiché non avevo soldi disse: “Be’, qualche chilo di formaggio e un po’ di burro me lo porterai!”. Vivevo a casa sua, in camera assieme a Giacinto Prandelli. Ma il maestro importante da cui ho imparato la respirazione è stato Ettore Campogalliani al Conservatorio di Parma. Mi ha insegnato a respirare nello stesso modo naturale di cui mi parlarono, in seguito, Gigli, Pertile e Schipa».

I suoi modelli ideali?

«Ho avuto la fortuna, da baritono, di cantare con Beniamino Gigli (La bohème), con Tito Schipa (L’elisir d’amore, Manon Lescaut) e li studiavo tra le quinte; e ho ascoltato dal vivo Aureliano Pertile. Cantavano su una tecnica perfetta: l’appoggio del diaframma, il dominio morbido del suono nelle note di passaggio, il girare, il suono sul fiato anche sugli acuti. Li ho spiati, e interrogati il giorno dopo perché questi cantanti mi hanno insegnato che il giorno della recita non si deve parlare».

Cantava da baritono e cercava i segreti del tenore?

«Nessuno l’aveva capito. Ma io sapevo di non essere baritono. Nella trasformazione da baritono a tenore io sono autodidatta. Ho cercato di capire la facilità (apparente) di quei grandi, il legato, la mezzavoce, l’incisività, perfino i difetti, come quando Gigli mi svelò con candore: “Caro figliolo, le mie non sono mezzevoci. Sono falsettoni appoggiati sul fiato. Chi imita me, si rovina”. E ho deciso di rischiare. Il 12 ottobre, tre mesi prima del debutto, cantavo l’ultima recita di Madama Butterfly a Livorno, con Galliano Masini e la prima giapponese venuta in Italia, Tosiko Segawa. Il 12 gennaio ‘51 ho debuttato da baritono con Andrea Chénier al Petruzzelli ed è nato il mio primo figlio, Maurizio».

Una scelta temeraria, di lirico spinto, per un giovane.

«Facevo le prime audizioni da tenore e sono andato dal Commendator Colombo che per me è stato un padre, e da baritono mi ha sempre fatto fare qualche recita (Il barbiere a Milano, alla Rocchetta; le tournée coi giovani a Tolosa, a San Sebastián). Mentre usciva ignaro dall’ascensore mi misi a suonare e cantare l’Improvviso. Trasecolò, e offrì di farmi debuttare in Adriana Lecouvreur, a Bari il 12 gennaio. Comincio a studiare, da una nostra amica a Cusano perché non c’erano i soldi per prendere il pianoforte a noleggio, e tre giorni dopo mi chiama: “Adriana non si fa perché la Olivero non canta più: devo fare Chénier per forza. Se tu hai il coraggio”. Un mese per preparazione e debutto; ho detto: “lo faccio”».

Col successo di Andrea Chénier è cominciata la carriera.

«La mia fortuna è stata che al debutto fosse presente Sernicoli, allora direttore della Rai, e che in quell’anno cadesse il cinquantesimo anniversario di Verdi. Dopo il terzo atto venne in camerino e mi offrì Giovanna d’Arco e I due Foscari con Giulini. Tutti allora ascoltavano la radio».

Bergonzi è il tenore che tutti i direttori desideravano.

«Da Bruno Walter a Patanè e Santi ho cantato con tutti; mi son trovato molto bene con Karajan, con Mitropoulos, Votto, Gavazzeni, Cleva, Schippers, Solti, Mehta. Però fra i direttori ho avuto un solo grande maestro di tecnica vocale: Tullio Serafin. Quando mi ha conosciuto cantavo alla Scala il Mas’aniello di Jacopo Napoli, nel ‘53. Una mattina, al Marino Scala, saliva a piedi pian piano; mi chiama e chiede: “Lei conosce l’Amore dei tre re di Italo Montemezzi?”. Mai sentito. Mi ha dato la parte di Avito, micidiale ma molto bella, mi ha mandato a studiarla musicalmente da Narducci (uno dei maestri attaccati al metronomo) e mi ha portato a Chicago, nel ‘55, con la Flagstad e Rossi Lemeni. E poi mi ha dato subito l’Aida con Tebaldi e Stignani, Cavalleria rusticana, La forza del destino a Palermo. Qui mi ha fatto capire i rallentando: avevo provato il primo Quadro, tutto a tempo; ha pregato i colleghi di uscire e mi ha detto: “Lei diventerà uno dei più grandi tenori verdiani. Però si ricordi una cosa, che il tempo è anche questo: uno, due, tre eee quattro”. Un altro maestro di grande levatura è stato Mitropoulos. Le prime volte che ho cantato Tosca con lui ha cominciato: “Adesso mi fa sentire come lei canta Recondite armonie e io la seguo”. Poi ti fermava, naturalmente, ma ti aveva messo subito in tranquillità. E Karajan, dopo il Requiem alla Scala, nel ‘63, appena finiti gli applausi, mi prese lo spartito e vi scrisse: “E la prima, ma non certo l’ultima, Herbert von Karajan”. Il mio primo Requiem l’ho cantato con Bruno Walter; passò in platea al Met mentre stavamo provando l’ultimo atto di Aida. “O terra, addio”. E disse a Rudolf Bing (il sovrintendente del Met): “Quel tenore lo voglio nel Requiem”. Lo studiai; tre mesi dopo, alla prova, entra questo vecchino, con la giacchetta nera alla Toscanini, e comincia dall’Offertorio. Appena prima della mia aria (Hostias) si ferma: “Qui vado giù con l’orchestra in do maggiore. Lei non canti, e non guardi me, perché non batto. Perché battere quattro quarti e far attaccare a un tenore mi naturale è una stecca assicurata”. Arrivo alla fine e lui, quasi commosso: “Mai sentita una tranquillità come con questo ragazzo”».

Anche colleghi celebri si sono emozionati alla serietà e autenticità del suo canto.

«Del Monaco mi ha fatto andare lui al Metropolitan, sentendomi in una recita di Manon Lescaut a Parigi. Dopo il “pazzo son” ho sentito un “Bravo!” che ha spaccato il teatro. Dopo cinque minuti bussa in camerino e mi offre una recita di Aida e una del Trovatore alla quale lui rinuncia per me. Era il novembre ‘56; Del Monaco mi ha truccato da Radames e mi ha sistemato i costumi. Al terzo atto venne in camerino con Bing, che mi portò un contratto per tre anni».

Questa voce si è salvata da freddi siberiani: lei fu deportato in Germania dal settembre ‘43 al settembre ‘45.

«Ero richiamato a Mantova e un rastrellamento mi ha portato in tradotta sul Baltico. Sei mesi di pala e piccone sulla ferrovia, con 35 gradi sotto zero e due zoccoli di legno olandesi. La domenica cantavamo per le truppe e un generale russo cercava di proteggermi. Ho fatto il camionista, il panettiere, infilavo gli scarti nelle braghe alla zuava per portarli ai compagni. Abbiamo marciato per quaranta chilometri, bevuto acqua infetta e ho preso il tifo... Aiutato dai compagni son tornato. Sono arrivato a Vidalenzo la prima sera che ridavano la luce elettrica, e ho visto Adele».

L’autore preferito?

«È Verdi, in particolare. Però in repertorio ho settantadue ruoli. Ho cantato tutto Puccini, compresa Turandot, Giordano, Mascagni, Franchetti, opere contemporanee, Monteverdi».

Il personaggio più amato?

«Direi Riccardo di Un ballo in maschera, il più adatto per le mie qualità vocali, anche di grazia. Poi a ruota Radames, Manrico e Alvaro».

Il disco che più la soddisfa?

«Io una frase al pianoforte la ripetevo anche cinquanta volte se non veniva bene. In disco, come avrei voluto io non è venuto niente, ma cercavo di avvicinarmi, di seguire i segni dell’autore. Comunque direi La bohème con Renata Tebaldi (1959); Un ballo in maschera con Leontyne Price (1966) e soprattutto le 31 Arie di Verdi».

 


Data di creazione: 02/06/2005
Data di modifica: 20/08/2005
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