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Bergonzi, il trionfo e l’addio
LIRICA: II grande tenore emiliano ha concluso la carriera con un concerto alla Scala

di: Francesco Maria Colombo
27 ottobre 1993

Nello charme della sua voce si chiude un’epoca.


MILANO. Bisognava vederlo, l’altra sera, il Commendatore della Repubblica Italiana e Grand’Ufficiale Carlo Bergonzi, con le insegne in bella mostra sullo sparato candido, aggirarsi per il palcoscenico della Scala e indirizzare le note di Non ti scordar di me alle gallerie, alla platea, a tutti quelli che gli rispondevano agitando il fazzoletto; quindi, sull’acuto limpidissimo e brunito, fare il cenno di saluto con le dita, piegare indietro la testa e chiudere la nota (con uno di quei suoi gesti un po’ goffi che lo rendono irresistibile) su un delirio di applausi; e ancora chinarsi sul proscenio e stringere cento mani, e tornar su, col profilone amabile, e andarsene da trionfatore.
Una scena riemersa come da una pellicola dimenticata, un mondo smarrito che richiama l’affetto, un’epoca dell’arte e del canto che si chiude per sempre, e non solo perché restano irripetibili il timbro e lo stile di Bergonzi, ma perché il rapporto fra gli artisti e il loro pubblico ha subito negli ultimi anni lo stravolgimento dei megaconcerti, del play-back, delle adunate di piazza col divo lontanissimo e amplificato, dei programmi che danno dell’Italia, al Central Park o a Hyde Park, la solita immagine della Pizzaland.
L’altra sera, invece, l’incanto era perfetto: i bis salutati ciascuno come l’arrivo di una creatura prediletta, il discorso d’addio del tenore, la commozione confessata, la dedica «del cuore» al pubblico del «Teatro della Scala» (proprio così: «della», siamo in diretta!), l’applauso chiesto per la moglie in un palco...
Carlo Bergonzi, che ha concluso con questo concerto la carriera italiana a sessantanove anni d’età (chiuderà la tournée d’addio negli Stati Uniti, a Carnegie Hall e al Metropolitan), non è la solita vecchia gloria cui il pubblico perdona falli, pasticci, note calanti, timbro scolorito, per captare qualcosa del fascino di un tempo: è, letteralmente, un magnifico tenore nel pieno possesso dei mezzi tecnici, e giunto a una maturazione stilistica esemplare. Se ne va non perché sia tardi, ma per farsi maggiormente rimpiangere.
L’altra sera il programma che Bergonzi ha scelto (con l’ottimo pianista Vincent Scalera) componeva una silloge così equilibrala fra pezzi-celebri (due Arie verdiane su tutto), ricercatezze di suprema eleganza (i veri e propri Lieder di Verdi e Bellini in apertura), canzoni fatte apposta per colorare di nostalgia il tutto (Denza, Tosti, Innocenzi/Rivi), da restituire un’immagine completa del tenore: che non ha perso nulla dell’eccezionale, leggendaria ampiezza dei fiati, della qualità morbida e fusa del «legato», dell’intonazione costante, dell’esattissima realizzazione dei passaggi di registro, dello squillo negli acuti. Solo da questo punto di vista si è trattato di una lezione autentica, su cui molti recenti divi dovrebbero meditare.
Del resto, c’è poco da stupirsi: quando un cantante imposta da giovane una tecnica raffinatissima e spietata, com’è quella di Bergonzi, la voce si mantiene da sé. Ma soprattutto erano la fascinazione di uno stile antico e insorpassato, la bellezza old fashioned di quelle note e di quella dizione, l’equilibrio millimetrico di discrezione ed enfasi, a donare a questa serata scaligera il sigillo delle cose perfette.
Quando Bergonzi intona Non t’accostare all’urna di Verdi, ogni parola, ogni sillaba dell’elegia ha un colore e un accento diverso, ciascuna diffonde il suo unicum emotivo ed espressivo, e la fusione di tutti i sentimenti evocati si iscrive in un ordine di classico decoro; quando c’è da

 


Data di creazione: 30/03/2005
Data di modifica: 05/04/2005
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